Diario

So much for my happy ending

Vi è mai capitato di sentirvi bloccati? Come se ci fosse qualcosa che vi impedisce di muovervi come vorreste, sia fisicamente, sia emotivamente. Come in quegli incubi in cui provate a correre, ma, nonostante tutti i vostri sforzi, non ci riuscite.

Ecco, a volte mi capita di sentirmi così e mi sembra quasi di avere una sorta di tappo sulla testa che mi spinge verso il basso. Mi sento come uno spumante a Capodanno, dimenticato sull’ultimo ripiano del frigorifero in attesa di essere stappato per il brindisi di mezzanotte, mentre tutti sono fuori a vedere i fuochi d’artificio. Non è una bella sensazione; e non mi riferisco solo al Capodanno, che è già piuttosto fastidioso di per sé senza che ci si mettano pure i brindisi mancati, parlo proprio di  interi periodi in cui mi sento totalmente incapace di prendere una direzione e seguirla fino in fondo. 

Confusi? Io sì. 

Ultimamente, oltre ad essere bloccata, mi sento anche particolarmente distratta. Faccio fatica a concentrarmi e mi capita di interrompermi nel bel mezzo di un’attività. La mia soglia dell’attenzione si è abbassata così tanto da non raggiungere i centimetri necessari per fare un giro sul Bruco Mela al Luna Park. Che nostalgia del Luna Park! A giugno ero solita organizzare una serata sulle giostre qui nella mia città, ma date le restrizioni di quest’ultimo periodo non mi è stato possibile. Che poi, bello questo periodo, eh? Passeggiamo per le strade con l’obbligo di portare la mascherina, ma se si mangia qualcosa si può stare tranquillamente senza: quindi, se la mia amica mangia un gelato può respirare liberamente, mentre io boccheggio accanto a lei per le vie del centro. E poi una non deve sentirsi confusa. Se mi siedo in un bar in piazza devo stare a un metro di distanza dagli altri tavoli, ma quello che passeggia per la strada con la fidanzata può sfiorarmi il gomito e farmi rovesciare il mio preziosissimo Crodino sulla gonna come se niente fosse. Passi per la gonna, ma il Crodino è talmente poco che ogni goccia è preziosa. Me lo dite perché devono venderlo in bottiglie così piccole? Se stesse a me decidere, darei la possibilità al cliente di scegliere la quantità desiderata per qualsiasi ordinazione. Vuoi un mini Mojito? Ecco due foglie di menta e mezzo cubetto di ghiaccio in un bicchiere da amaro. Vuoi uno shottino di tè alla pesca? Ecco una selezione di marche in commercio: Nestea, Estathè, San Benedetto. Vuoi una tanica di caffè? Prendi pure il barile che sta dietro al bancone e usalo anche come sgabello. Che problema c’è? L’unico vero problema, forse, sarebbe quello di non far fallire l’attività nel giro di un mese. Un po’ come le farfalle che vivono mediamente una trentina di giorni, fatta eccezione per alcune specie particolari. Io adoro le farfalle. Una volta, quando ero bambina, ho deciso di andare a visitare “La Casa delle Farfalle”; ero in vacanza al mare coi miei genitori e durante un pomeriggio in spiaggia ho sentito pubblicizzare questa specie di serra. Inutile dire che è stato meraviglioso! Ero in uno dei miei posti del cuore e ogni volta che ci torno ripenso a quel giorno. Dovete sapere che sono una persona molto abitudinaria, se mi affeziono a un luogo amo tornarci ogni volta che posso. Non che non ami viaggiare e scoprire posti nuovi, anzi! Tempo fa mi avevano proposto di partecipare a un viaggio all’estero, ma poi non se n’è fatto più nulla. Tipico. Lasciate che vi dica una cosa, al mondo esistono solo due tipi di persone: quelle che portano a termine qualsiasi progetto, costi quel che costi, e quelle che

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Le croniche di Narnia

Sì, ho storpiato il titolo e c’è un motivo; abbiate pazienza, ci arriveremo.

Ma prima: ve lo ricordate Le Cronache di Narnia

Io no

Non molto, almeno. Tutto quello che so è che avevo un librone con un leone sulla copertina relegato sul fondo della mia libreria. Il film, invece, l’ho visto tutto. Anni e anni fa, certo, ma come dimenticare lo shock nel veder comparire il mio adorato James McAvoy, conosciuto nei panni di un affascinante Mr. Lefroy (non mi sto dilettando con le rime, lo giuro), nel corpo di un fauno? La storia a grandi linee la sanno più o meno tutti. Londra, guerra, bambini, noia, armadio, SBAM! Un mondo magico tutto da scoprire. 

Esattamente. Proprio come il magico mondo di chi soffre di una malattia o un disturbo cronico, soprattutto se invisibile. Oggi mi rivolgo a tutti quelli che, come me,  nel corso della loro vita si sono sentiti soli, incompresi e spesso anche derisi a causa di un disturbo che non si vede, ma che in molti casi può rendere le cose decisamente difficili.

Non voglio ergermi a paladina degli incompresi, ma questa è per me una brutta giornata e, come al solito, sento di potermi rifugiare nella scrittura.

Avete mai sentito parlare di Disturbo Disforico Premestruale? Se avete letto il mio blog, sì. E di Sindrome dell’Intestino Irritabile? Di Sindrome da Ovaio Policistico? Di congiuntivite cronica? Di rinite allergica? Sì, immagino di sì. Ma lasciatevi stupire: avete mai sentito parlare di appendicopatia cronica? Scommetto di no, ma non è colpa vostra, tranquilli, sono io che adoro fare l’originale. 

Probabilmente molti amanti del dramma saranno rimasti delusi: “Ma come, io mi aspettavo la grande rivelazione, la malattia rara, gravissima e sconosciuta, e questa ci rifila quattro cose che conoscono tutti? Ehi, bella, non sei mica in fin di vita! Ripigliati!”

Lo so. 

Lo so, sono una delusione. Ma sono anche un po’ ipocondriaca quindi non posso escludere totalmente di avere qualcosa di grave; sono certa che se digitassi su Google i miei sintomi attuali troverei il modo di soddisfare la vostra sete di tragedia. Deve essere dura, effettivamente, per chi non ha mai sperimentato uno di questi disturbi capire come ci si possa sentire, figuriamoci se si tratta del pacchetto completo come in questo caso! 

Però suppongo che sarà capitato a tutti di avere un’influenza almeno una volta nella vita, no? Oddio, non correte a chiamare l’ASL, mi riferisco al periodo pre-Covid, quando ancora si poteva avere un attacco di starnuti di un quarto d’ora senza rischiare la multa per omicidio colposo. Ecco, provate a ricordare quell’influenza gastrointestinale e quel brutto raffreddore di qualche anno fa. Poi aggiungeteci il malumore di una giornata storta (non so, pensate a quando vi ha lasciato il vostro ex, a quando vi si è rotto il pc o a quando avete scoperto che era finito il gelato in casa) e spalmatelo su un periodo di due settimane circa. Poi metteteci quel fastidio che sentite agli occhi quando vi si ficca dentro un moscerino per sbaglio e un pizzico di emicrania da sbronza. Fatto? Perfetto. Ora prendete dei fogli di carta, della colla vinilica, delle forbici dalla punta arrotondata e provate a cimentarvi in uno dei facilissimi lavoretti proposti da Giovanni Muciaccia. Avete raggiunto il giusto livello di frustrazione? Molto bene. Shakerate il tutto e otterrete probabilmente meno della metà delle sensazioni che io (e chi come me) provo più o meno ogni giorno.

E sapete qual è la cosa buffa? Che la gente solitamente non ci crede. Quando dico di stare male, a meno che non mi abbiano effettivamente vista in preda a uno dei miei attacchi di appendicite, mi deridono, sminuiscono la cosa, pensano che non sia vero. E va bene, mi avete beccata, lo dico solo per fare scena, voglio che tutti mi immaginino piegata in due dai dolori intestinali e con il naso che cola tutte le sere prima di andare a letto. Sexy, vero? È chiaro che il mio intento sia proprio quello. 

E poi ci sono i medici. I medici sono fan di Narnia. Quasi tutti. Non lo sapevate? Ve lo dico io.

Loro amano prendere i pazienti come me, chiuderli in un armadio e fingere che non siano mai esistiti. E mentre loro a fine giornata ripongono le cartelle e vanno a fare l’aperitivo senza pensieri, hakuna matata, beati loro, tu vaghi nel mondo che sta dall’altra parte dell’armadio, un mondo magico in cui gli effetti collaterali dell’ennesima Strega Bianca che ti hanno prescritto non tarderanno a farsi sentire e tu, piccola Lucy disincantata, sai che non ci sarà nessun fauno in grado di salvarti.

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Near, far, wherever you are

Oggi sono uscita e, mentre me ne stavo in riva al fiume sotto il sole, con le gambe incrociate e gli occhi socchiusi nel tentativo di non brasarmi le retine, mi sono ricordata di quei giochi che si compravano d’estate, di solito al mare, da qualche venditore ambulante lungo la strada. Ve li ricordate quei sacchettini di gomma colorata ripieni di farina con due occhi adesivi per niente adesivi e un ciuffetto di capelli di lana? Quelli che potevi modellare come volevi, ma che se ti azzardavi a farlo per davvero ti esplodevano in mano causando l’ira di chiunque ti stesse accanto?

Ecco. Stavo pensando che in questo periodo, in questa fase post quarantena, siamo un po’ come quei sacchettini di gomma. 

C’è chi dice che siamo cambiati, che adesso siamo più vicini di prima; c’è chi dice che siamo cambiati, che adesso siamo più distanti di prima.

È vero, forse siamo più vicini. Quando usciamo ci guardiamo in faccia, ma per davvero adesso, forse per vedere chi ha la mascherina più alla moda, o forse perché gli occhi sono l’unica parte visibile del nostro volto per buona parte del tempo. Eppure quelli che vedo io sono sguardi arcigni, indagatori, ansiosi, spesso giudicanti. Ci guardiamo di più, ma ci guardiamo male.

È vero, forse siamo più distanti. Quando andiamo a cena fuori vediamo tavoli distanziati, piccole isole in un mare di piastrelle, entriamo uno alla volta e, se siamo fortunati, ci ritroviamo coinvolti in un romantico tête-à-tête col plexiglass su cui disegnare cuoricini come sui finestrini appannati della macchina. Eppure, mentre aspettiamo fuori il nostro turno, stiamo tutti appiccicati in fila e conversiamo con persone che un tempo non avremmo degnato di uno sguardo nel tentativo di condividere le gioie e i dolori di questa nuova realtà. 

Conosciamo l’interno delle nostre abitazioni grazie agli innumerevoli video, dirette e foto dei mesi precedenti; scopriamo che il nostro vicino non è lo zozzone che credevamo e che, invece, il nostro capo tiene la lettiera del gatto in camera da letto. Ma allo stesso tempo non ci abbracciamo più, non ci baciamo, non ci stringiamo nemmeno la mano.

Andiamo al parco cogli amici e siamo costretti a mantenere le distanze, ma veniamo a conoscenza dei più intimi segreti di chi, urlando, cerca di farsi sentire dal proprio interlocutore. Adesso so che Viviana non ha risolto il problema dei peli incarniti con il laser, che la focaccia di Marco non è lievitata come avrebbe dovuto e che domenica prossima Lucia e Daniele proveranno una nuova posizione per favorire il concepimento di un maschio. Credetemi, vivevo bene anche prima

Facciamo mostra di avere un sincero interesse verso il prossimo, ma sotto sotto stiamo tutti facendo solo il nostro interesse: chi rispettando, chi trasgredendo le regole. Portiamo tutti una maschera, anzi, una mascherina. Sì Luigi, sì signor Pirandello, hai il permesso di rivoltarti nella tomba. Due giri a destra e quattro a sinistra dovrebbero bastare.

Siamo diversi, eppure sempre gli stessi, siamo come quei sacchettini di gomma: cambiamo forma, cambiamo aspetto, ma dentro abbiamo la solita farina di sempre. 

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Giro girotondo, cacca il mondo

Comincio a pensare che in quella lontana sera d’estate, quando ho ripetuto e storpiato senza sosta la famosa canzoncina per bambini instillando nella mia già troppo apprensiva madre l’atroce dubbio di una dislessia tardiva in sua figlia, non mi stessi solamente dilettando in un innocente gioco tritura-timpani, ma che stessi per profetizzare quello che avrei detto un bel giorno di maggio, diversi anni dopo, aprendo la porta di casa per andare a godermi un po’ di sana vita sociale: che mondo di merda! 

Eh sì. Siamo in piena fase 2 e già non sappiamo che farcene delle parziali riaperture dei locali e delle chilometriche file per comprare due librerie Billy e un pacco di tovaglioli all’Ikea. 

Lungi da me dire cosa sia giusto e cosa no, ma concedetemi un piccolo sfogo personale. 

É come se all’improvviso fossi tornata bambina.  

Esco di casa per una passeggiata all’aria aperta, parto con le mie scarpe da ginnastica colorate e il mio zainetto pieno di caramelle, acqua, due o tre felpe e una sciarpa (perché la mamma ci ha insegnato che se sudi e prendi freddo, ti ammali) e vedo attorno a me persone che non conosco. Alcune allungano il passo non appena intravedono un essere umano a distanza di chilometri, il volto coperto fino agli occhi, le mani avvolte in due sacchetti per la frutta tenuti chiusi da un elastico e una cintura di boccette di disinfettante per le mani.  Non mi piace guardarle. Mi volto e mi trovo faccia a faccia con la signora super abbronzata del terzo piano, canotta sportiva, coda biondo platino e rossetto rosso fuoco, che abbraccia le amiche lungo la strada baciandole tre volte a guancia per essere sicura di non dimenticare nessuna. Non mi piace neanche lei. Faccio per tornare sui miei passi, voglio tornare in casa, al sicuro, ma un padre di famiglia mi sfreccia accanto con la sua bicicletta verde fluo mentre la mascherina che aveva appesa a un orecchio vola via e i suoi due bimbi fanno a gara a chi la prende per primo. Non mi piacciono neanche loro. 

Non riesco più a capire: chi sono i buoni? E chi i cattivi?

Se fosse un film per bambini sarebbe facile da capire, i cattivi di solito sono vestiti di nero, di verde o di viola e i buoni di azzurro, di giallo o di rosa; ma adesso? Mia zia ha una mascherina nera e i guanti verdi. Che cosa devo pensare? 

Adesso vado a fare un giro per negozi e devo mettermi in fila indiana davanti alla porta come alle scuole elementari prima di andare nell’aula di informatica. Entro e mi viene detto di non toccare niente perché ho le mani sporche. Vedo qualcosa che mi piace, ma non lo posso comprare perché non ci sono abbastanza soldi e una vocina mi dice che bisogna risparmiare. Ma papà, io volevo la Barbie nuova!

Se voglio bere un succo e fare merenda al bar, devo fare uno strano e contorto percorso a ostacoli e, solo alla fine, se sono stata brava, potrò avere la mia ricompensa. Allora vado al parco a cercare i miei amici, ma sono tutti lontani e io sono miope, non capisco chi siano quelli là in fondo vicino allo scivolo, quindi torno a casa. Ma se invito da me un amico devo chiedere il permesso e, quando arriva, prima di poter giocare con lui devo fare i compiti: lavare le mani e disinfettare le superfici a rischio. Quando apro la porta, non lo riconosco, come dopo tre mesi di vacanze estive a casa dei nonni, il mio amico ha una faccia diversa e dei nuovi giocattoli; mi dice che deve mettere la mascherina in un posto sicuro e che io non la posso toccare. E se gli offro un gelato, mi risponde che non può rischiare di sporcarsi la maglietta e me lo fa mangiare da sola. 

Allora piango. Faccio i capricci, pesto i piedi, corro in camera mia e bagno il cuscino con tante di quelle lacrime da riempirci la piscina che la mamma non mi ha ancora fatto gonfiare in giardino, così impara a non ascoltarmi. Ma neanche lì mi lasciano in pace, vengono da me e mi dicono che sono stupida, che non capisco, che è giusto così.

Ma esattamente, che cosa è giusto? 

È giusto guardarsi tutti in cagnesco per le strade? È giusto attaccare chiunque dica (che lo dica soltanto, non che vada in giro a sputare sul primo che incontra) di sopportare a fatica queste restrizioni? È giusto insultarsi sui social per sfogare la frustrazione data da una situazione come questa? 

Ci siamo tutti dentro. Siamo tutti bambini scontenti che non possono fare altro che aspettare, aspettare che gli venga detto cosa fare, aspettare e girare, girare in tondo, perché, dopotutto, cacca il mondo. 

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È soltanto una fase

“È soltanto una fase” dicevano i miei genitori quando ho iniziato a non dare ascolto a nessuno e a farmi travolgere dai primi sintomi dell’adolescenza.

“È soltanto una fase” ripetevano, quando passavo interi pomeriggi al telefono con le amiche a parlare di quale smalto per unghie fosse più indicato per l’interrogazione di inglese del giorno successivo o a scegliere con quale dei nostri tre compagni di classe avrei preferito passare due ore chiusa nel bagno delle ragazze (spoiler: nessuno. Non ci si iscrive al Liceo Linguistico, una scuola al 90% femminile, se si hanno grandi mire sui ragazzi). “È soltanto una fase” sottolineavano, quando uscivo vestita completamente di nero per affermare la mia fede nel punk e passavo le mie giornate con le cuffie conficcate nelle orecchie e lo sguardo perso nel vuoto.

Così come, anni dopo, ho sentito dire alle mie amiche quando ho trovato l’amore (o così credevo) e io, io che amo il mare probabilmente da prima che nascessi, ho iniziato a passare i miei weekend in un paesino sperduto di montagna, ho smesso di farmi i colpi di sole e ho iniziato a interessarmi di politica: “Non ti preoccupare, tesoro, è soltanto una fase”.

La stessa cosa che mi sono detta io in tempi decisamente più recenti dopo aver comprato ventidue pacchi di Oro Saiwa convinta di aver trovato la colazione della vita e averne lasciati scadere più della metà nella credenza. O come quando ho deciso di tingermi di rosa i capelli appena prima di partire per il mare e ho passato le vacanze con i capelli di un allegro color verde stinto. O ancora, quando ho pensato di dedicarmi al giardinaggio e ho svaligiato mezzo Viridea prima di scoprire di non avere il pollice verde, anzi, lo definirei più come “Il pollice della morte“. Insomma.. per fortuna è sempre stata soltanto una fase.

E adesso?

Adesso che avrei voglia di stare a sentire le ramanzine dei miei genitori per ore, adesso che mi fionderei sulla cima più alta di una montagna per poter prendere una boccata d’aria, adesso che mi farei i capelli color topo morto se solo ci fosse un parrucchiere aperto… adesso mi dite che è solo una fase? 

E va bene. Purché sia breve. Proprio come quella volta in cui ho deciso di smettere di scrivere articoli sulla situazione in cui ci troviamo. Come? Non ve ne siete neanche accorti?

Appunto.

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Me ne vado a f*****o

A volte mi sembra che non ci sia via d’uscita. 

No, non sto parlando di casa miala porta la vedo fin troppo bene, vivo in un bilocale, ho la tentazione a portata di mano a ogni ora del giorno.

Mi riferisco al fatto che in questi giorni sia quasi impossibile riuscire a pensare a qualcosa di bello, come dicevo nel mio ultimo articolo. E io vi giuro che mi sto impegnando tantissimo, le ho provate tutte.

Mi sono detta, pensa al futuro: non potrà piovere per sempre. Il che mi ha portato a un doppio sconforto. Da un lato, sì, è vero, non può piovere per sempre, anzi, non piove proprio più. Quasi ogni giorno, quando mi alzo e vado in balcone, vedo un bel sole splendente che sembra dirmi con voce suadente “Dai, vieni da me, forza, basta solo un passettino…” Il che mi porterebbe dritta dritta a schiantarmi giù nel giardino del vicino e, dati i nostri trascorsi, direi che forse è meglio evitare. Dall’altro lato, invece, vengo bombardata da post e notizie decisamente poco rassicuranti che illustrano studi sullo sviluppo della pandemia e sulle nuove restrizioni a cui dovremo abituarci almeno fino al 2022. Oppure, ancora peggio, mi ritrovo a fissare tetri commenti sulle vacanze estive a cui dovremo necessariamente dire addio, pena l’estinzione della specie. 

Ma voi lo sapete, vero, che le vacanze estive sono ciò che mi spinge ad andare avanti a partire da metà gennaio?! Una volta passate le feste natalizie si punta dritto alle vacanze estive; solo così si può sperare di superare quella massa informe di mesi inverno-primaverili che ci separano dal grande momento (meglio se intervallati da qualche weekend fuori porta intorno a marzo-aprile). 

Così ho deciso di rifugiarmi nel passato: ho arraffato l’hard disk più vicino e mi sono tuffata in un mare di cartelle piene di ricordi e di vecchie foto. Ho rivisto vecchi amici che non sento da una vita, famigliari ormai deceduti, luoghi che non potrò rivedere ancora fino al 2022… e ho capito di avere commesso un grave errore. Ho lasciato perdere gli archivi e mi sono concentrata su un unico momento del mio passato, uno particolarmente bello e importante per me, e ho cercato di visualizzarmi ancora lì, felice come lo ero allora. Ho cominciato a desiderare con tutta me stessa di essere in quel luogo, quattro anni fa, di tornare a quel preciso istante della mia vita… e mi sono resa conto con orrore che, se tornassi indietro nel tempo, sarei costretta a rivivere tutto questo, un giorno! 

Lo so, non è stata un’idea brillante, ma valeva la pena provare. Nonostante la sconfitta, non mi sono data per vinta. Ho fatto un bel respiro e mi sono detta: “Pensa positivo!”. E nella mia mente ha preso forma l’immagine di un tampone positivo al virus.

Ecco perché adesso sono qui. Scrivere è la cosa che preferisco fare in assoluto, soprattutto quando non mi sento bene con me stessa; lo trovo terapeutico. Questa sera avevo un unico obiettivo: mettermi al PC e buttare giù due righe per evadere, almeno per un momento, dalla realtà che mi circonda. Mi sono aggirata nei meandri della mia mente alla ricerca di un argomento diverso, ho vagato tra i ricordi e mi sono presa persino un attimo per bighellonare tra i sogni (perlopiù incubi) che ho fatto in queste ultime notti, ma senza risultato. 

E ora, mentre rileggo quello che ho appena scritto, mi rendo conto di aver fallito miseramente.

Signori, io per stasera ho chiuso.

Me ne vado a f*****o.

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La quarantena che non ci voleva

Eccoci qui,  a circa un mese dall’inizio di questo incubo a fare i conti con l’isolamento forzato, la paura dilagante e le catene di Whatsapp.

In questo periodo mi sono imbattuta in diversi articoli, post e commenti online in cui si parla della nuova visione del mondo, della rinnovata attenzione ai piccoli piaceri di ogni giorno e dello stupore dinanzi alle meraviglie della natura che la gente sta riscoprendo durante questa insopportabile segregazione. 

La cosa mi ha fatto riflettere, e molto. 

Quindi, fatemi capire, mi state dicendo che per fermarsi un attimo, prendersi il tempo di pensare a cosa è davvero importante nella vita e iniziare ad apprezzare anche le piccole cose vi serviva una pandemia mondiale? Sul serio?!

Non bastava chiudere Facebook cinque minuti prima la sera e fermarsi a pensare alle cose belle della giornata prima di andare a dormire? 

Non potevate fare lo sforzo di alzare la testa e guardare il cielo mentre andavate al lavoro invece di fissare l’asfalto pensando a quanto odiate il vostro capo?

Non sarebbe stato più semplice ascoltare un po’ di buona musica per rilassarvi a casa invece di fissare con sguardo vacuo la tv e riempirvi la testa di chiacchiere inutili con programmi di dubbia qualità? 

Adesso non è il momento di disegnare arcobaleni e improvvisare applausi al buco dell’ozono dal balcone di casa, come a voler recuperare tutto il tempo perso prima che le quattro mura in cui viviamo diventassero la nostra prigione. In questo periodo diversi ricercatori si sono interessati all’impatto psicologico che questa quarantena avrà sulla popolazione non appena ci sarà possibile tornare alla normalità, ma la realtà è che i danni si stanno facendo sentire già adesso. Tanta gente sta vivendo stati d’ansia e di stress senza ricevere l’aiuto e l’attenzione necessari, e mentre un ragazzo qualunque deve tornare agli antidepressivi che non usava da mesi, forse anni, la madre invia le foto del suo ultimo sformatino di patate e piselli alle amiche, rigorosamente in pigiama, hashtag iorestoacasa

Se proprio non sapete cosa fare, leggete e informatevi di più ora che ne avete il tempo, concentratevi su voi stessi e sulle persone che amate, che siano vicine o lontane. E chissà che un domani, una volta riaperti i cancelli del mondo alla società, non ci sia la possibilità di avere più consapevolezza e buonsenso tra la gente comune. 

Ma se neanche questo vi basta, allora aprite pure la finestra e postate una frase a effetto sugli incredibili prodigi della natura, tanto state pure tranquilli che, una volta tornati alla normalità, non sarete più neanche in grado di distinguere la sagoma del bonsai sul balcone del vostro vicino.